Scritto inedito KAFKA E LA GIUSTIZIA Vincenzo Accattatis 27 gennaio 2016 La giustizia che diviene ingiustizia. L’Italia umbertina con il suo Palazzo di Giustizia a piazza Cavour in Roma. Il Palazzaccio per il popolo. Negli alti piani la Suprema Corte di Cassazione (imitazione della Suprema Corte di Cassazione francese, bonapartista). Al piano inferiore la Procura del Re, agli ordini, “il comando dell’azione penale”, la polizia: contro i nemici, a favore degli amici. Romanzi e novelle espressionistiche amplificano i difetti del sistema, li rendono al massimo visibili, leggibili. “La giustizia deforme”, più deforme che in effetti non sia. Lo Stato di diritto di tipo bonapartista-prussiano (da distinguere dalla rule of law) di cui Franz Kafka tratta nel romanzo “Il processo”. La giustizia vera tende ad annullarsi nella democrazia. I rivoluzionari francesi lo hanno bene inteso. Lo hanno inteso anche i populisti americani. Il massimo di consapevolezza espressionistica dei limiti della giustizia tecnica che pretende essere neutrale mentre non può esserlo per ragioni costitutive: “Davanti alla legge”. Il suddito (o il cittadino) aspetta, aspetta sempre e la giustizia è stata fatta proprio per lui, a sua tutela; così gli si dice, così dicono tutti, o quasi tutti. Il contadino balordo vuol vedere “la legge”, ma si trova davanti ai guardiani della legge (i giudici, gli avvocati, i cancellieri, gli uscieri). Non la vedrà mai, morirà sperando di vederla: attendere, attendere, attendere; rinvii, rinvii, rinvii. Kafka ha un profondo senso di giustizia che viene offeso dalla visione della giustizia reale, dalla giustizia amministrata da funzionari che si compiacciono ad ammirare la bellezza degli strumenti (“Nella colonia penale”), senza considerare gli effetti devastanti. Kafka rovescia l’ideologia, la retorica. Si tratta allora di stabilire non se la giustizia descritta da Kafka sia reale, perché reale certamente non è, ma se, rispetto all'ideologia, alla retorica della giustizia, la sua simmetrica deformazione metta in equilibrio la bilancia per far risultare la giustizia reale come la media fra la retorica e l’antiretorica kafkiana. Kafka è l'antideologo del sistema giustizia; rovescia la retorica della giustizia, rovescia l’“ideologia” e mostra la giustizia e i suoi apparati esecutivi nei suoi aspetti deformi con deformità ingigantita. In certo senso, si tratta di una antiretorica simmetrica. In prospettiva democratica occorre, ovviamente, rovesciare Kafka. Dalla evidenziazione e denuncia dei mali all’azione per rimediare; ma per rimediare in che senso, a quale fine? Per cercare di costruire una giustizia di tipo liberale al massimo imparziale, al massimo neutrale. Kafka desiderava un mondo giusto, ma non lottava per un mondo giusto, non era associato, era un dissociato, un uomo solo, un individuo, un individuo di fronte allo Stato Leviatano bonapartista-prussiano. Al liceo Kafka diviene socialista1, ma non era un socialista, un socialista non è mai “solo”, vive con gli altri, fa politica assieme agli altri. Masse e potere2. Kafka era un socialista sentimentale e, quindi, non era un socialista. Dall'analisi di Kafka del sistema giustizia si può ricavare un pessimismo nero, oppure pervenire alla risoluzione del suo maestro Charles Dickens: impegno perché il sistema giustizia sia riformato: ma si può riformarlo? Fino a che punto? Il sistema di giustizia, ce lo dicono Adam Smith, David Hume e i padri fondatori americani, è funzionale al sistema economico dato3. Occorre quindi, prima di tutto o contemporaneamente, cercare di cambiare il sistema economico dato. Proposizione socialista del tutto estranea alla cultura di Kafka. Il processo Joseph K. è un impiegato di banca, un uomo comune: non un rivoluzionario, non un sovversivo, non un socialista. Il sistema legale dovrebbe essere dalla sua parte ci dice Kafka. L’ispettore di polizia che lo arresta dovrebbe invece proteggerlo (il mondo rovesciato). L’ispettore dovrebbe parlare con il suddito K., informarlo; dovrebbe dirgli perchè è lì in casa sua e invece non lo informa. K. è innocente. Aspetto del tutto irrilevante per l’ispettore di polizia che è uno strumento. Dietro di lui c’è il pubblico ministero; dietro di lui c’è il giudice. Alla fine K. viene sgozzato “come un cane” senza sapere perché mai lo sgozzano. Lui è innocente. Non ha fatto nulla. Dovrebbe essere protetto dall’apparato dello Stato e invece l’apparato dello Stato lo sgozza. Ci sono giudici a Berlino, a Praga, a Roma? Nel palazzo di giustizia di Roma, nel Palazzaccio? Non ci sono. K. li cerca ma non li trova. C’è il palazzo e stanze vuote, labirinti, linguaggi strani, incomprensibili, disegni osceni. Eppure il palazzo è stato costruito per lui, per rendergli giustizia. K. vive “in uno Stato di diritto”4 e il pubblico ministero5 è suo amico. Potrebbe proteggerlo ma lui a chiamarlo per telefono. La Corte misteriosa Il palazzo di giustizia è un palazzo strano. La sala di udienza è qualcosa di mezzo fra la Court of Chancery di “Beak House” e un “girone dell'inferno dantesco”6. Orson Welles ha ambientato alcune importanti scene de Il processo nel Palazzaccio di Roma7. Tenuto conto dell’ambiente, il lettore è portato a concludere che nessuno può ottenere giustizia in quella Corte. Il palazzo è fatto apposta per far smarrire le persone, per disorientarle, per stordirle. Lunghe le attese, rinvio delle udienze, andate e ritorni. Costretto a tornare, K. ritorna ma non trova nessuno. Cerca libri di diritto e trova invece libri pornografici. Il pittore Titorelli gli spiega che ha tre alternative: l'assoluzione reale e cioè il riconoscimento della sua innocenza in un regolare giudizio, l’assoluzione apparente e cioè la raccomandazione presso i giudici perchè sia assolto - ma un'assoluzione del genere non è mai definitiva - e la procrastinazione e cioè che il processo si trascini senza concludersi mai (Tintorelli non tratta della prescrizione). Secondo Posner, il cuore del romanzo è “nel futile tentativo di K. di trovare una risposta in una macchina che non dà risposte”, che è solo in grado di dare risposte meccaniche, preprogrammate8. Il processo può essere interpretato come una profetica anticipazione della giustizia di tipo nazista o staliniana, ma la giustizia come labirinto inestricabile è realtà presente anche negli Stati liberal-democratici. Le opere di Kafka possono essere lette in vario modo ma certamente devono essere lette in senso antifascista e antinazista. L’uomo può svegliarsi scarafaggio. Il messaggio è chiaro. Come Dickens, Kafka conosceva il mondo della giustizia: si laurea in legge nel 1906 e fa il suo anno di pratica legale in tribunale. Si occupa poi di infortuni sul lavoro. “La sua sensibilità sociale - scrive Max Brod - rimane sconvolta quando vede le mutilazioni subite dagli operai a causa delle insufficienti misure di sicurezza”. È un aspetto quasi mai messo in risalto. Kafka descrive minutamente le macchine che possono mutilare gli operai9. Siamo già nella “colonia penale”: “... la gente cade come ubriaca dalle armature, precipita dentro alle macchine, tutte le travi si ribaltano, tutte le scarpate si sgretolano, tutte le scale scivolano...”10. Nella “colonia penale” “il punto” fondamentale del racconto - scrive Richard Posner - è il giudice unico dello Stato totalitario11. Il processo è nelle mani di un singolo individuo con mancanza assoluta di garanzie o con garanzie limitate (nella colonia penale l’operatore è, contemporaneamente, legislatore, giudice ed esecutore). Giustizia arbitraria che diventa sadica. Il giudice-tecnico, professionale che, con assoluta “dedizione” (il massimo dell'alienazione) impassibilmente porta a termine il suo compito. L’esploratore (meglio “il turista”) affetta il suo glaciale distacco, vuol vedere, vuol conoscere, vuole rendersi conto. Posner tratta della relazione Kleist-Kafka (della relazione Il processo e “Michael Kohlhaas”)12: il suddito che riceve ingiustizia e si vendica; ma, va osservato, la vicenda medioevale mal s’inquadra nella vicenda di K. La vicenda di K. è vicenda moderna da inquadrare nella denuncia della giustizia che non funziona mentre dovrebbe funzionare (Dickens)13, nella lotta perché funzioni (o nella rassegnazione), nel “welfare state” da costruire (Dickens)14, nello Stato sociale di tipo bonapartista-bismarckiano che si pretende presente mentre è assente. Giustizia porto delle nebbie. L’attore consuma tutte le sue risorse per venire a capo del processo “Jarndyce v. Jandyce” ma non ne viene a capo. Il capitolo sessantacinquesimo (“Beginning the Word”) è già un racconto kafkiano. Il palazzo di giustizia pieno di gente “in preda a una viva ilarità”15. Si ride, si ride: finalmente il processo è terminato, ma come è terminato? Perchè non ci sono più risorse, il processo ha consumato tutte le risorse e i protagonisti si sentono finalmente liberati, possono finalmente iniziare una nuova vita fuori dai tribunali, fuori dall’incubo dei tribunali, una vita autentica, reale, di uomini fra uomini, non di uomini fra scartoffie. “La metamorfosi” è del 1916. Il processo è scritto negli anni 1914-1915 ma è pubblicato nel 1925. “Nella colonia penale” è del 1919, anno in cui in Europa nascono fascismo e nazismo. Note: 1 Marthe Robert, Seul, comme Franz Kafka, Calmann-Lévy, 1979, Paris, p. 67. |